A PIEDI NUDI – BAREFOOT

PREFAZIONE

Le immagini di nudo sono contemporanee all’esordio stesso della fotografia. Dagherrotipi osé chiusi a battente entro un astuccio di velluto. Tempi lunghissimi di esposizione, pose convenzionali e rilassate delle modelle, tra i cuscini, come negli atelier dei pittori accademici. Anzi, i dagherrotipi, e poi le stampe in formato “carta da visita”, sostituirono presto le modelle, per gli artisti che non potevano pagarsele. Ma è solo mezzo secolo più tardi, alla fine dell’Ottocento, che viene tentata l’istantanea all’aperto. Ricordiamo le bagnanti semi-immerse nelle istantanee del pittore Francesco Paolo Michetti sulle spiagge d’Abruzzo; o ancora in Italia, i “ragazzi di vita” siciliani che Von Gloeden ai primi del secolo ritraeva tra le polemiche dei benpensanti di Taormina. Ma gli innocenti, pagani, nudi sdraiati nel verde, accanto a tronchi o massi, appartengono più alla cultura visiva dei nord-europei — tedeschi, ungheresi, scandinavi — che a quella mediterranea. Basti pensare al cinema tra le due guerre: al primo famoso nudo en plein air — quello di Hedy Lamarr in Extase di Gustav Machaty (1933) — e paragonarlo alla fugace apparizione del seno di Clara Calamai ne La cena delle beffe di Alessandro Blasetti (1941). Il nudo fotografico, tra gli autori italiani, restò quasi sempre confinato nelle sale di posa (da Wulz a Finazzi, da Castagneri a Luxardo) con rarissime eccezioni, come Vender. Questa breve notazione storica solo per affermare che il lavoro creativo di Antonio Catellani trova oggi un consapevole aggancio con la produzione fotografica nord-europea piuttosto che con quella italiana. Addirittura con i grandi epigoni statunitensi di questa cultura, nel secondo dopoguerra. In particolare con l’opera di Wynn Bullock o di Harry Callahan, maestri nel-l’integrare un corpo femminile (l’idea stessa della figura umana) entro corni-ci assolute, selvagge, dalla vegetazione imponente… simboli a loro volta dei cicli eterni della natura, su cui in parallelo operavano le loro memorabili ricerche Edward Weston e Ansel Adams.
Catellani si trova da anni (almeno una decina) di fronte al costante desiderio dì rapportare il corpo femminile ad uno scenario che ne sottolinei il valore “assoluto” ma senza eludere una personale pulsione emotiva. Quel bosco, quelle figure di donna; ma anche quei desideri, quei tentativi, quei graduali perfezionamenti, quelle iterazioni che sono momenti insostituibili del fare fotografie. La lettura che l’obiettivo compie è sempre fatalmente impietosa. Anche Catellani è per così dire a piedi nudi: non sottrae se stesso — e non sottrae i suoi strumenti — a quella necessità “testimoniale” che la ripresa reca sempre con sé, sconfiggendo ogni astrazione, ogni fuga idealisti-ca, ogni tipo di sublimazione. Antonio Catellani non e un fotografo professionista; e l’elogio che mi sento di fare al suo lavoro, libero da ogni committenza, sta proprio nell’autonomia del suo percorso creativo. Il nostro autore ha, come tutti noi, dei valori culturali di riferimento, ma li usa — li mette in pratica, in immagini — con una indipendenza ignota ai colleghi che debbono “servire” un’utenza precisa: per la moda, per l’eros patinato, per la pubblicità, per le promozioni nel business dello spettacolo. Così noi possiamo leggere con chiare77. — ma forse, vedremo, solo apparente chiarezza — alcune sue ribellioni alla convenzione attuale del nudo fotografico; ed è per questo che egli si rifà ad altri momenti storici del linguaggio visivo. Più disarmati, forse, ma più emozionanti. Vi si può forse scorgere una polemica contro questi anni di plastica, contro le donne di plastica che sembrano assediarci. Catellani sí apre con la sua innocente istintività ad un approccio non “virtuale” verso la donna. Rompendo l’ipocrisia decennale con cui i fotografi “artisti» hanno escluso la testa dai corpi inquadrati, o l’hanno reclinata pudicamente, Catellani ci permette invece di convivere con lo sguardo diretto delle sue modelle. Di esse, in queste pagine, egli ci ricorda amichevolmente i nomi. Tre sono italiane, tra cui le due riprese assieme, nella loro garbata ambiguità. Con le altre, possiamo immaginare dialoghi un po’ stentati in russo, polacco, ceco. In generale, questi volti, questi poteri fisici sono doppiamente affascinanti. Ci rimandano a modelli femminili legati alla “migrazione” di questo fine millennio: dove stranamente scopriamo una nuova professionalità nell’esibizione. Anzi, una professionalità dell’innocenza. A me sembra di cogliere in queste foto l’incontro non facile — e perciò l’ho definito emozionante — tra una nostra tradizione che apprezza l’eros “colpevolizzandolo” e la disarmata offerta di queste nuove figure femminili, incolpevole per definizione. Questi corpi sono splendidi. Di più, essi ci appaiono esenti da ogni ritocco digitale, al contrario di tutti quelli esibiti nei calendari per voyeur. Nei loro volumi, noi possiamo leggere un assieme di ipotesi e promesse. Nuovi codici di eros più aperti — quasi ironici — ma anche smarrimento, o il preludio a fughe, o contrasti. Possiamo leggere l’innegabile vitalità che sempre le donne ci offrono attraverso il momento che noi, riduttivamente, definiamo dell’esi-bizionismo. E negli splendidi paesaggi italiani (il Friuli, l’Appennino toscano, i boschi del Mantovano) qui descritti, riscopriamo un misto di oscura drammaticità e gentilezza che è il segreto stesso dell’attrazione fra i sessi. Scenari autonomi solo in parte, saldamente integrati al paesaggio dei corpi che si alternano sul terreno. In conclusione, credo di capire che Catellani abbia attraversato momenti opposti (dentro di sé) producendo queste immagini. E che in fondo la loro forza, il loro valore creativo siano dimostrati dalla diversità di condizioni emotive, di pulsioni, che lasciano immaginare. Dinnanzi a noi — o dentro di noi? — troviamo un uomo che con il suo obiettivo oscilla tra la cultura della Forma e quella dell’Eros. E che fino all’ultimo, per nostra fortuna, si rifiuta di scegliere.

Cesare Colombo