BICICLETTE IN CITTÀ

PREFAZIONE

Le biciclette di Antonio Catellani

Non so se quello di Catellani sia veramente un “discorso sull’uomo per interposto oggetto” o non piuttosto una demiurgica ricreazione del mondo d’oggi. Mi spiego. Da quello che vedo nelle sue immagini, sono portato a credere che Antonio Catellani non abbia eccessiva dimestichezza con la velocità ormai supersonica a cui si muove la nostra indaffaratissima società. Men che meno con l’eccitata follia di un certo yuppismo che nel formicolio degli ambienti di Borsa ha un referente, ripetuto poi in molta parte degli ambienti di ritrovo collettivo, in cui talvolta è il numero a “salvare l’anima”. Antonio Catellani mi pare – almeno a giudicare da queste fotografie – un tipo schivo, pensoso, assai più familiare con la solida, buona, “tradizionale” cultura, che con le superfetazioni lobotomizzanti dell’attuale “essere in”. Ecco allora che il suo obiettivo, nutrito a fondo di buone frequentazioni visive (stavo per dire “artistiche”), nel momento in cui si appunta sul mondo, assume un segno che diventa il filo conduttore del suo discorso. Che, a sua volta, mi pare teso assai più a “ordinare” il mondo secondo una propria particolarissima sensibilità, che non a dare un giudizio morale. Che ciò avvenga attraverso l’eliminazione dello spurio e l’assunzione di paradigmi omogenei, mi pare del tutto naturale, avendo egli deciso di privilegiare, come strumento, la fotocamera che per definizione è condannata alla “resa fedele del reale” e che ha quindi in sé un’intrinseca incapacità alla selezione critica. Questa nasce invece dalle scelte di Catellani che – se ci mette davanti la bicicletta come specchietto per le allodole, o come metafora – in realtà è occupato soprattutto a catalogare -in questa sua demiurgica opera di ri-creazione di un mondo “possibile” – spazi, luoghi, vite anche solo immaginate, in cui la sintonia con alcune delle più sublimi lezioni dell’Arte contemporanea (mi pare anche troppo enunciata la passione di Catellani per l’informale) rappresenta assai più di un semplice omaggio ai maestri. Questa vibratile galleria di micro eventi, sospesi in una sorta di iperuranio senza il respiro affannoso del tempo e della storia, attinge vertici metafisici, da cui vanamente i “segni” graffiti sui muri (scritte spray, manifesti strappati, insulti del tempo) vorrebbero farci discendere. E la bicicletta onnipresente assume qui lo stesso segno insieme magico e misteriosofico del borgesiano Zahir, in cui si condensano il Mondo e la Storia.

Lanfranco Colombo